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LA LINGUA A ORECCHIO

«Perché… ci vuole orecchio» era il refrain di una canzoncina surreale degli Anni 70, cantautori la coppia di cabarettisti Cochi e Renato. La nostra lingua, complice la cultura e l’analfabetismo di ritorno («Saper annotare correttamente parole sulla carta non è saper scrivere» spiega Gabriele Pallotti, docente  di Didattica delle Lingue moderne dell’Università di Modena. «Parlare e scrivere sono due diversi modi di pensare») di cui l’Italia detiene il primato negativo in Europa, seguita da Spagna e Francia, si presta anche a storpiature dei modi di dire – la così detta “cultura popolare” – che raggiungono vette di comicità imprevista. Di seguito ne riportiamo alcune, di queste storpiature, suddivise per argomento; sono assolutamente vere e le abbiamo ascoltate di persona. Ci servono per proporvi di leggere un libro che non mancherà di allietare i vostri momenti di ricreazione dalle fatiche quotidiane.

Eccole.

“A caval Donato non si guarda in bocca”. Scusi, se il cavallo ha un altro nome?

“Il lupo s’intavola”. Un animale feroce ma ben educato, si direbbe.

“Tanto va la gatta al largo che ci lascia lo zampino”. Fosse stata dove si tocca…

“Costa Lire di Dio”. Non è però che passando all’euro l’Onnipotente abbia abbassato i prezzi.

“Preghiamo secondo la menta del sommo pontefice”. La cultura green è entrata in Vaticano.

“Non sapere a che santo riavvolgersi”. Evidentemente al primo tentativo è andata buca.

“Per un punto martin perse la cappa”. Avesse usato il punto croce…

“È raro u mano est”. Estemporanea manovra di conversione a U sulla tangenziale orientale?

“Bruciano le storpie”. Attività praticata dai contadini prima del sovescio; nel Medioevo in alternativa alle streghe, i padri inquisitori se le sventurate non si riconoscevano colpevoli.

“Andare alle candele greche”. Insieme alla pece greca, una forma di economia sostenibile.

“Avere il dono dell’ubliquità”. Al pari della Torre di Pisa, il privilegio di non cadere mai.

Come si vede, ci vuole… orecchio.

Ah, il libro. Chi volesse dotarsi di un catalogo dei luoghi comuni tipo, per intenderci,  l’ignoranza è sempre dilagante; l’afa insopportabile; l’ottimista (e il male) inguaribile,  comperi dello scrittore torinese Giuseppe Culicchia Mi sono perso in un luogo comune (Einaudi, 230 pagine, 14 euro e 50 cent): avrà a disposizione un dizionario- pamphlet assolutamente vero e godibilissimo delle insensatezze e superficialità con cui parliamo e scriviamo. Su cui sarebbe meglio “stendere un velo peloso”.

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