C’ERA UNA VOLTA IL PANE…

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Il pane ha una storia antichissima che probabilmente ha origine con gli Egiziani, ritenuti eccellenti agricoltori ed i primi veri panificatori dell’umanità con la costruzione di forni a cupola e l’applicazione di quella che in futuro si sarebbe definita “lievitazione naturale”. Più tardi i segreti della panificazione passarono agli Ebrei che però producevano solo un tipo di pane non lievitato, rotondo e spesso circa 3 cm (pane azzimo).

Secondo alcuni documenti storici, già nel periodo classico, cioè tra il VI ed il V sec. a.C. vi erano ben 72 tipi diversi di pane. Famosi erano il pane di Cappadocia (lievitato con il latte) e di Cipro (cotto sotto la brace) o il profumato amolgèe, pane dei contadini.

A Roma invece il pane entrò nell’uso quotidiano soltanto verso la fine della Repubblica: Plinio racconta che il pane fu introdotto nel 168 a.C. per opera di alcuni schiavi catturati in Macedonia dopo la sconfitta del re Perseo.

Perché un cibo così antico e semplice oggi è diventato un prodotto da forno così complicato e difficile da digerire e da conservare?

Per fare il pane, infatti, occorrono solo tre semplici ingredienti: farina, acqua e lievito.

La farina, che sappiamo essere il prodotto ricavato dalla macinazione di vari cereali ed altro, è il primo problema da affrontare. Noi abbiamo a disposizione farine che provengono dal frumento (grano), granoturco (mais), orzo, farro, riso, avena, segale, miglio, kamut, grano saraceno e castagne. Per ciò che riguarda il pane e la pasta, il cereale più importante è il frumento dal quale si ottiene la farina bianca (che deriva dal grano tenero “Triticum vulgare”) e la semola (che deriva dal grano duro “Triticum durum”) con consistenze diverse.

La farina di grano tenero è composta per la maggior parte da amido (64-74%) e proteine (9-15%), principalmente glutenina e gliadina. Queste a contatto con l’acqua e per azione meccanica, si legano tra di loro e formano un complesso proteico chiamato glutine, creando una specie di maglia elastica. Il glutine assorbe 1,5 volte il suo peso in acqua e durante la lievitazione trattiene l’anidride carbonica sviluppata dal lievito. La percentuale relativa di glutenine e gliadine determinano le proprietà dell’impasto: le glutenine lo rendono tenace ed elastico, mentre le gliadine lo rendono estensibile. La forza della farina (indicata sulle etichette dei pacchi di farina ad uso professionale con la lettera W) è la quantità di glutine che riesce a sviluppare e la sua conseguente capacità di assorbire acqua. Il suo valore è correlato alla ricchezza proteica del grano: maggiori sono le proteine nel chicco, più glutine verrà sviluppato nell’impasto.

Conoscere la differenza tra farina di grano tenero e farina di grano duro è importante poiché non tutte le farine si prestano alla produzione del pane. Infatti, i prodotti ottenuti impiegando l’una o l’altra farina risultano molto diversi sia per colore che per contenuto proteico, per assorbimento di acqua e per granulometria. La granulometria definisce la dimensione del grano: una granulometria maggiore non consente una lievitazione ottimale ed è quindi preferibile nella produzione di pasta.

Il livello di raffinazione delle farine le classifica in tipo 00, tipo 0, tipo 1, tipo 2 e farina integrale che contiene tutte le parti del chicco di grano. Il contenuto di ceneri presenti nella farina determinerà il grado di raffinatezza della stessa, contenuto minimo nel caso della farina 00 (sbiancata inoltre con procedimenti chimici). La farina 0 è più ricca di glutine il che rende l’impasto più elastico e consistente ed è quindi migliore per la panificazione. La farina tipo 2 contiene più crusca ma non quanto quella integrale, dove avviene solo il passaggio attraverso i rulli. Attenzione però alla farina integrale che troviamo in commercio perché spesso è composta da farina 00 a cui sono aggiunte ceneri grossolane.

In commercio si possono, inoltre, trovare farine con miglioratori e le cosiddette farine di forza. Le farine con miglioratori non dovrebbero servire, in realtà, a migliorare letteralmente il prodotto finale bensì a renderlo più stabile e quindi conservabile a lungo. Vista la globalizzazione dei mercati e la libera circolazione delle merci sarebbe opportuno effettuare attente verifiche anche sui prodotti di panificazione (in particolare impasti crudi e pane precotto surgelato) che provengono da altri paesi e che in Italia vengono semplicemente o lievitati e cotti al momento della vendita o solo completati nella cottura. Le farine di forza sono farine ricche in glutine che assorbono meglio l’acqua e sono indicate soprattutto in pasticceria.

Da citare le farine speciali perché prodotte con grani selezionati, soprattutto Americani e Canadesi (come la Manitoba) usate per rinforzare le farine più deboli o per produrre pani particolari; Manitoba è il nome di una regione del Canada, ma oggi vengono chiamate Manitoba tutte le farine con forza W superiore a 350 che assorbono il 90% del loro peso in acqua. La principale caratteristica di questa tipologia di grano tenero è l’elevata presenza di proteine da cui ne  deriva una farina capace di sviluppare a contatto con l’acqua una maglia glutinica tenace e capace di tollerare lievitazioni lunghe.

L’altro fattore critico per la panificazione è il tipo di lievito utilizzato: lievito industriale compresso (lievito di birra) e  lievito naturale (pasta acida).

Il lievito industriale detto anche lievito di birra perché una volta era prodotto dagli scarti di lavorazione della birra, oggi si produce a partire dalla melassa, sottoprodotto dello zucchero ricavato dalla barbabietola; è venduto in pani e conservato in ambiente fresco (può anche essere congelato). Il lievito industriale è attivo anche con farine deboli, consente tempi di lavorazione rapidi e la produzione di pane di piccola pezzatura.

Il lievito naturale detto anche lievito madre è invece una coltura che si sviluppa da farina, zucchero e acqua che esposti per qualche tempo all’aria si arricchiscono di microrganismi tra cui i saccaromiceti. Questo tipo di lievito presenta molteplici vantaggi tra cui: sapore ed aromi tipici (dovuti ad alcoli ed esteri formatisi durante la fermentazione alcolica ed a prodotti della reazione di Maillard che avviene a seguito della cottura di zuccheri e proteine), maggiore digeribilità, struttura del pane più regolare (alveolatura della mollica molto fine, con bolle uniformi per la presenza di una maglia proteica ben strutturata), ma ha l’inconveniente dei tempi di lavorazione più lunghi (lievitazione dalle 10 alle 26 ore).

In commercio possiamo trovare anche il lievito secco attivo, ottenuto da colture di ceppi diversi ed essiccato fino ad un’umidità residua inferiore all’8%. Ha un sapore molto spiccato, sapido che gli permette di essere utilizzato anche come insaporitore.

Un altro metodo per panificare che vale la pena di ricordare è quello della preparazione con biga. La biga è un preimpasto a metodo indiretto composto da acqua, lievito e farina che si lascia lievitare per un tempo da stabilire in base al prodotto che si vuole realizzare. Successivamente la biga s’impasterà con gli altri ingredienti, dando così origine all’impasto vero e proprio. Quest’ultimo andrà, poi, lasciato lievitare nuovamente per il tempo necessario che va da un minimo di 12 ore (biga a media lievitazione) ad un massimo di 48 ore (biga a lunga conservazione). L’utilizzo della biga come agente lievitante aumenta la morbidezza e la digeribilità del pane ottenuto, ne acuisce il sapore ed il profumo e ne allunga i tempi di conservazione.

La bontà del pane dipende sicuramente da un’accurata lavorazione di farine altamente selezionate, dall’utilizzo del lievito madre e dal rispetto dei tempi di lievitazione. La panificazione è una nobile arte che deve essere recuperata non soltanto per preservare i sapori della tradizione ma per permetterci di gustare un alimento sano e nutriente.

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grazia

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