ERRORI DA MATITA BLU

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La lingua, amici lettori, è un affare complicato. Essa tiene conto dell’evoluzione degli usi e dei costumi, di latitudine e varietà regionali, della alfabetizzazione crescente e di quella “di ritorno”, della differenza tra scritto e parlato, dei linguaggi settoriali, del progressivo affermarsi del progresso tecnologico, del linguaggio giovanile, dell’invasione degli anglicismi …  e via dicendo.

C’è una lingua alta e una lingua bassa. Le sue regole spesso cambiano. Le maggiori responsabilità nel plasmare la sensibilità normativa degli utenti, scrive Giuseppe Antonelli in L’italiano nella società della comunicazione (il Mulino, 2007) «spettano da un lato alla scuola, dall’altro ai mezzi di comunicazione di massa … in particolare la televisione, l’ambiente linguistico nel quale il pubblico si trova immerso molte ore al giorno, fino ad assorbire una serie di modi e – implicitamente – di norme». Sui mezzi di comunicazione di massa ritornerò.

Ragioniere, che fa?  Batti

Lasciamo stare le varie fantozziane abbi, facci, vadi né occupiamoci qui del congiuntivo, morto morente o ancora in discreta salute secondo i pareri degli specialisti, e vediamo come i mass media “comunicano” nel cosiddetto villaggio globale. Mezzi che, con un entusiasmo degno di miglior causa, spesso incorrono in strafalcioni clamorosi, destinati a diventare patrimonio linguistico della maggioranza delle persone.

Che fine ha fatto la matita blu?

Nella nostra lingua sopravvive, anche se sempre meno usata, l’espressione “errore da matita blu”. Fino a qualche tempo fa i maestri elementari e i professori delle scuole superiori correggevano i compiti degli studenti ricorrendo alla matita rossa e blu. Rosso il colore degli errori veniali, blu quello degli errori gravi o gravissimi. Colori non più adeguati al nostro tempo, stando a una inchiesta di Annachiara Sacchi (Corriere della Sera, genn. 2020): troppo aggressivi, che creano “sensi di colpa e angosce”, dice l’autrice del servizio, negli alunni e nei loro genitori. Opinabile, senza dubbio se riferito al mondo dell’istruzione. Ma i media, i media che si suppone siano già istruiti? È vero per altro che persino per l’Accademia della Crusca certe espressioni non sarebbero errori perché ormai integrate stabilmente nella nostra lingua; significa che gli errori di grammatica e di sintassi censurati a scuola fuori dal contesto scolastico non sono più tali?

Un paio di esempi.

I media italiani amano la s.

Di questi tempi non è infrequente leggere “un silos”; più facile ancora, grazie alla cronaca che una volta si diceva “nera”, imbattersi in una guardia armata indicata come “un vigilantes”. Ora, generalmente nelle lingue straniere la s indica il plurale dei sostantivi. Infatti, silos è plurale di silo, parola spagnola che indica una costruzione adibita al deposito e alla conservazione dei cereali, dei foraggi e anche di minerali e di prodotti chimici. Sui media italiani, però, non è raro trovarla accompagnata da una (errata) s finale: un silos. La quale esse non termina qui di esercitare il suo fascino; si prenda, per esempio, la parola vigilantes, prestito angloamericano dallo spagnolo vigilante (part. pres. di vigilar «vigilare»), cioè le guardie giurate, gli agenti di polizia privata addetti alla protezione e alla sorveglianza: los vigilantes, al plurale. Sui nostri media spesso accade un fatto strabiliante: una singola guardia privata può diventare due, “un vigilantes”, come sovente ci capita di leggere (o sentire).

De minimis

Leggerezze, quisquilie si dirà. Vero. Ma non del tutto, direi, se persino a proposito di media (plurale lat. = mezzi; sing. medium) che, sull’onda del linguaggio parlato introdotto dalla pubblicità negli anni Sessanta del secolo scorso, in italiano ha assunto significato di mezzi di informazione, di comunicazione di massa; se, dicevo, persino nel risguardo di copertina di un compendio su origine e significato delle parole leggiamo “un media digitale”, allora amici lettori la battaglia è perduta. Qui non si tratta più di uso improprio della esse o di evoluzione della lingua, ma di ignoranza della sua storia remota. Si capisce allora come mai – mi segnala una amica docente universitaria – con un post su Facebook un individuo apostrofasse severamente un giornalista del Corriere della Sera perché questi aveva scritto aut aut. Il tizio voleva che correggesse con out out. E gli consigliava di studiare l’inglese.

 

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