IL MONFERRATO E LA LEGGENDA DI ALERAMO

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Ci sono aree che sono caratterizzate da storie vere o mitizzate, altre che si caratterizzano per fatti storici, altre ancora per produzioni agricole di particolare importanza, oppure legate a vicende territoriali singolari e tra le più disparate, ma tutte significative.

Ad esempio, il Salento pare derivi, come suggerisce Plinio il Vecchio, dall’idioma messapico e significhi “mare”. Ciociaria, anticamente compresa tra il Lazio e la Campania, inclusa Roma, sembra derivi dal nome di arcaici e speciali calzari, detti le “ciocie”, molto funzionali. Il toponimo Garfagnana in Toscana, invece, viene fatto risalire al nome proprio di una persona, un latino, tale Carfanius che ne era il proprietario, e così via dicendo.

 

C’è però un territorio, il Monferrato, che in particolare si distingue da tutti gli altri, per una serie di fatti che raggruppano gran parte delle vicende storiche, leggendarie, economiche e sociali, le quale (tutte insieme) danno vita ad un’unica storia avvincente e molto accattivante, tanto da differenziare la regione e renderla unica, sia per la ricchezza degli eventi -in una serie di storici e avvincenti fatti veri-, sia per il loro legame alla fantasia popolare.

Il tutto si tramanda e si arricchisce in una storia leggendaria senza eguali, una vera e propria soap opera dei tempi antichi, affascinante e seducente, dove si intrecciano, fatti d’armi, coraggio, amore, fughe d’amore, odio, bambini, ricchezza, nobiltà, povertà, perdono, lavori umili, dignità, eroismo e audacia.

Che si può pretendere o inventare di più?

Tutto trova riscontro nel passato del Monferrato.

Il territorio oggi è compreso tra l’astigiano, il casalese e l’acquese, e non perde occasione per rifarsi della sua meravigliosa leggenda, che nasce pochi anni prima dell’anno Mille, ricca di episodi storici e di riferimenti che ancora oggi possiamo ritrovare in città, rocche e toponimi sparsi non solo nel basso Piemonte ma anche nella vicina Liguria e legami persino ad Hannover, in Germania.

La millenaria leggenda di Aleramo, marchese del Monferrato, genero dell’Imperatore Sassone Ottone I°, merita di essere portata alla conoscenza di tutti, per le interessanti vicissitudini del momento storico in cui si è svolta. Dal pellegrinaggio a Roma dei genitori sassoni (le vie dei pellegrinaggi, Francigene o Romee) fino alle vicende storiche di Ottone I°, intervenuto con il suo potente esercito a Brescia.

Si occupa del Monferrato, anche Giosuè Carducci, uno dei maggiori poeti italiani che, nella poesia Il Piemonte, definisce il territorio come “L’esultante – di castella e vigne – suol d’Aleramo”.

Proprio Giosuè Carducci fu uno dei più convinti estimatori della storia e delle leggende degli Aleramici, tanto che scrisse “Io darei molti volumi di poesia stampata per sapere qual campo coltivato ricuopre oggi della sua verzicante sementa il luogo del castello, ove il marchese Bonifacio, nel maestoso vigore de’ suoi cinquant’anni, con a lato il figlio marchese ed intorno le figliuole contesse, ricevè l’ambasceria, sovrastando egli, quasi gigante, di tutta la cervice, gli ‘astanti’”…. E raccolse in un documentato volume la leggenda di Aleramo, il capostipite dei Marchesi del Monferrato.

Ed ecco il racconto, che riprendiamo da Jacopo d’Acqui:

“Fu un gentiluomo di Sassonia, chi dice un marchese e chi propriamente un duca discendente da Vitichindo, e alcuno lo chiama Aldeprando, il quale non avendo ancora figlioli dalla donna che gli era stata data compagna così di costumi come di nobiltà, fece voto, se Dio gli concedesse grazia di prole, andar in pellegrinaggio, chi dice a Roma e chi a San Giacomo di Galizia, lui e la donna.

“Ottenuta la grazia, il signore con la moglie incinta si misero in cammino; ciò nell’anno 904. E cavalcando con bella e onorevole compagnia arrivarono nella contea e diocesi di Acqui ove tra la Bormida e l’Orba presso a confluire nel Po sta Sezzè (l’odierno Sezzadio), luogo d’antico nome romano (Sexsadium), nel quale Liutprando re dei Longobardi aveva fondato nel 772 la chiesa di Santa Giustina; allora nobile e buon castello tenuto dai nobili uomini, che avevano dominio all’intorno. Qui la donna, non potendo, grossa com’era, durare più oltre l’ambasciata del cammino, si fermò, sovrappesa dalle doglie partorì un figliuol maschio bellissimo, a cui i signori del luogo tenendolo a battesimo misero il nome di Aleramo, con dire al padre – Dio nel tuo pellegrinaggio ti ha dato tale allegrezza – però che nel volgar piemontese antico “aler” suona “allegro”.

Passato che fu un mese, i due genitori pensarono di proseguire il pellegrinaggio a soddisfazione del voto, e lasciarono il figlioletto con una balia di sua lingua raccomandato ai signori del luogo per riprenderlo poi nel ritorno. E andarono, e adorarono le spoglie degli Apostoli in Roma o in Compostella; ma nel ritorno, malignità di natura o reità d’uomini che fosse, vennero a morte. E nessuno ricercò più del fanciullo, e anche la balia sassone indi a tre anni morì.

Ma tanta era la graziosa avvenenza di lui e tale in tutti la pietà dei nobil sangue e del caso, che il comune di Sezzè lo volle allevare del suo e i signori del castello lo ebbero in luogo di figlio; e, quando toccò i quindici anni, alcuni di loro corredò suo scudiero. Non mai natura aveva formato creatura più bella, nè meglio in vista manifestasse l’alto lignaggio e allevato con buoni insegnamenti ed esempi egli cresceva anche egregio di virtù e di costumi.

“Allora avvenne che l’imperatore Ottone (mettiamo il I, ma Jacopo d’Acqui dice il VI e Galvano Fiamma il III) passò di Alemagna in Lombardia dove alcune città gli si erano ribellate; e fece grandissimo sforzo intorno a Brescia, la quale, nota il frate d’Acqui, fu spesso molesta agli imperatori. E mandò bando per tutta l’Italia che i fedeli venissero all’oste.

Va Aleramo il bello scudiere, bellamente arredato, per il comune di Sezzè; e fu nel cospetto dell’Imperatore, rappresentandogli l’omaggio dei signori e del castello e della villa. Molto piacque ad Ottone, che lo dimandò onde fosse. Tedesco di sangue – rispose Aleramo – ma di nazione e di educazione longobardo. E quando l’imperatore ebbe inteso del fatto suo,tanto più gli pose amore e sentì pietà di lui che sì nobile e di tanto lignaggio fosse rimasto così senza padre, senza madre, senza fedeli, solo al mondo; e lo fece cavaliere di sua famiglia, e volle che gli servisse della coppa a mensa.
Il valletto che bello e piacente era, andava per il palagio dell’imperatore, passando spesso dinnanzi alle dame e damigelle, che attentamente lo riguardavano e molto il lodavano di bellezza e cortesia e molto lo desideravano avere per amico. L’imperatore aveva di sua moglie che si chiamava Lombarda, una figliuola, di nome Alasia, la più vaga damigella che si trovasse al mondo. Ora la pulzella non poteva saziarsi di riguardare il donzello, e gli faceva molto dei sembianti.


Ben se ne accorse Aleramo, ma molto gl’increbbe per l’amore del signor suo al quale non voleva fallire. Ma la damigella pur gli faceva assai festa, tanto che alfine non sapeva Aleramo che fare né che dire: però che amore e bellezza da una parte lo infiammavano tutto, e fede e coscienza dall’altra lo ritraevano d’amare.

“La fanciulla quando si vide a tale condotta che non faceva che languire, disse al valletto “Io non potrò più vivere, se voi non mi menate in qualche parte ove noi siamo senza pericolo, però ch’io non possa senza voi più durare”. Come il donzello la intese, esclamò: “Che è quel che dite, dolce signora? Già non potremo noi andare in nessuna parte che non siamo di subito tagliati a pezzi e morti. Della morte mia a me non importerebbe; ma non soffra Iddio che la vostra persona abbia sì fatta pena”.

Tuttavia la fanciulla tanto seppe dire e fare, che Aleramo, disperando per una parte che l’imperatore si contentasse mai del loro amore, e dubitando per un’altra che durando ancora la cosa non si potesse più oltre celare, una notte menò via la fanciulla.

“E si vestirono per non essere riconosciuti, di abiti strani, e diversi; e su due cavalli, uno bianco e uno rosso (colori dello stemma monferrino e della città di Hannover con il cavallo rampante) fuggirono per foreste e per luoghi selvaggi. Alcuna volta si imbatterono nelle genti che l’imperatore aveva mandato a inseguirli; e quelli gli domandavano se sapessero novella di un cavaliere di tali fattezze e in tal abito che menava con sé una damigella: di che potete credere qual sicurtà essi prendessero. Allora Aleramo si ricordò di dolce paese ove era nato e dell’aspra montagna ove garzonetto andava alla caccia con i suoi signori di Sezzè, detta Pietra Ardena ed ivi se ne andò conducendo seco la compagna.

Quando Aleramo fu sull’alta montagna, non v’era che mangiare e bere all’infuori dell’acqua chiara; non si domandi la pietà ch’egli ebbe della sua damigella, che piangeva di fame. E, cercando se ne andò sulla più alta cima, per meglio vedere all’intorno; vide un fumo, e pensò che là fosse gente, e s’avviò, e trovò due carbonai, e li pregò gli dessero del pane e gli aiuterebbe a far carbone. Quelli che di aiuto avean bisogno, gli diedero del pane e di ciò che avevano.

Aleramo, detto a quei due che di presente ritornerebbe, andò alla sua amica; e a lei, usa nutricarsi delle migliori vivande, diè di quel grosso pane a mangiare, e intanto studiava di confortarla come meglio poteva. E costruì su quei greppi, di vecchi tronchi e di arbusti, una capanna per lei e per sé.

E poi imparò fare il carbone, e si accompagnò agli altri carbonai; e lo portava a vendere alla città di Alberga; e ne comprava e seta ed altre cose necessarie alla sua amica per lavorare di ricamo, di che ella sapeva bene aiutarsi. Ella faceva di cotali piccole borse e altre cosette, che il marito vendeva alla città. E in poco tempo non stentarono più, anzi vivevano secondo il nuovo stato a tutt’agio, e avevano obliato i piaceri e le delizie de’ bei vestimenti e ogni altra cosa bella che avesser mai avuto, e si erano vestiti alla foggia che appartiene a’carbonai. E così standosene contenti della povere vita e del ricco amore ebbero più figlioli: chi dice quattro e chi dice sette.

“Aleramo, in questo mezzo, vendendo un giorno poi l’altro del suo carbone al cuoco del vescovo di Alberga, prese familiarità con lui. E quando il figlio suo maggiore fu su’ dodici anni, e il padre cominciò menarlo a città e alla corte del vescovo, il giovinetto, che era di bell’aspetto e somigliante all’imperatore Ottone tanto s’avanzò nella grazia del vescovo che questi lo fece suo scudiero.

“Avvenne intanto che i bresciani ribellarono di nuovo all’imperatore e l’imperatore mandò il bando per far l’esercito contro Brescia. Il vescovo di Alberga come vassallo dell’impero, si dispose di andare. E il cuoco del vescovo chiama Aleramo, egli dice se vuole andare seco all’esercito: “Starai con me in cucina e mi aiuterai”. Aleramo va col cuoco, e suo figlio Ottone va col vescovo come scudiere. Il cuoco aveva un gagliardo e buon cavallo; e così per trastullo volle avere armi e un’insegna, dove erano gli arnesi di cucina, paioli, padelle e catene al fuoco, tutte nere in campo bianco.


Stando così, l’esercito intorno a Brescia, quelli dentro la città presero tanto d’ardire che un giorno vennero sino al padiglione dell’imperatore, e lo volse in fuga co’ suoi baroni per ben cinque miglia. Il che vedendo Aleramo e dolente della vergogna dell’imperatore, saltò sul cavallo del cuoco e prese le armi e la bandiera, battè e ricacciò i bresciani sin dentro la porta.

Di che tutti meravigliarono, e fu per l’esercito un gran favellare del milite dalle insegne del cuoco che aveva battuto i bresciani e che nessuno conosceva. Il giorno di poi, i bresciani tornarono alla sortita, presero un nipote dell’imperatore, che molto era buon cavaliere e lo tirarono fuori della mischia per menarlo nella città.

Quando Aleramo ciò intese ammonì i compagni suoi di ben fare, e ferì dentro la folla: e il nipote dell’imperatore fu riscosso e i nemici ricacciati a forza dentro le mura. Allora sì che crebbe per l’esercito il rumore di questo cavaliere; e l’imperatore lo voleva vedere, e il vescovo mandò per lui. Aleramo era nella cucina con gli altri guattieri e disse di non essere degno di andare innanzi l’imperatore; ché troppo era unto e nero della cucina, e , se più gliene parlassero, si fuggirebbe; però che, diceva, si facevan beffe di lui; ché un carbonaio non doveva andar nella presenza di tale e tanto principe. Anche una giostra ci fu, a sollazzo dell’imperatore e dell’imperatrice; e anche nella giostra il travestito Aleramo fece gran fatti d’arme e cavalleria. Allora alla fine il vescovo di Alberga, avuto a sé, gli domandò strettamente chi egli fosse; e Aleramo manifestò al vescovo l’esser suo, e il vescovo sotto secreto all’imperatore.

“L’imperatore, placato, ricevè in grazia e con grandissima tenerezza raccolse la figliola, il genero e i nipoti; ai quali tutti dié il cingolo della cavalleria, e consegnò il vessillo della milizia con la balzana di color rosso bianco, che dovesse esser segno del valore e della fede di tutti gli eredi del seme di Aleramo.

E fu grandissima festa per molti giorni nella corte dell’imperatore e in tutto l’esercito pe’ i campi della città di Brescia.“Vinta Brescia,l’imperatore, venuto ad una delle più vecchie città dell’Impero, Ravenna, ivi conferma dignità di Marchese ad Aleramo e a tutti i suoi: ciò fu al 21 marzo del 967. E gli concesse che fosse suo quanto egli in tre giorni potesse correre a cavallo di quella terra montuosa che è il Piemonte. Ed egli montando in tre giorni tre cavalli velocissimi, e cavalcando sempre di forza dì e notte percorse tutte le contrade intorno a dove poi fu Alessandria, intorno a Savona, a Saluzzo, al Monferrato. Al secondo giorno cavalcò tanto di forza che il cavallo gli stramazzò sotto presso un luogo detto Arenorio sur un monte che ancora al tempo del narratore della leggenda si chiama Cavallo Morto. Si favoleggia anche come Aleramo volle prima della gran corsa ferrare il cavallo; e che non trovando gli strumenti a ciò, adoperò un mattone, che nel dialetto del Monferrato è detto “Mun”; e così il cavallo fu ferrato, “frrha”, onde il nome di Monferrato”.

Chi scrive non può fare a meno di ricordare la Cavalcata Aleramica del 1996, portata alla ribalta nazionale ed Europea grazie all’abbinamento della lotteria, in binomio con la Maratona d’Italia di Carpi. Fu una delle ultime lotterie europee promosse da Giochi Senza Frontiere, con un montepremi in palio di 5 miliardi delle vecchie lire.

Permettetemi di ringraziare con stima e riconoscenza una ragazza che, nel 1991, ha effettuato un’importante ricerca all’Archivio Storico di Stato di Torino l’editto imperiale con il quale l’imperatore Ottone I di Sassonia aveva conferito nell’anno 967, al cavaliere Aleramo, il titolo di Marchese e il territorio del Monferrato. Fu quel ritrovamento che permise di progettare e organizzare la storica e affascinante rievocazione e gara di endurance ippico.

Ricordo, infine, che alcuni riferimenti della leggenda si trovano nell’etimologia di Alassio che deriva da Alasia, fatto ricordato anche nel celebre muretto su cui sono esposte le formelle che raccontano questa antica leggenda.

 

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