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“Dire è fare”. È il titolo di un celebre saggio di John L. Austin sulla teoria degli atti linguistici, le azioni compiute attraverso il linguaggio, in cui il filosofo sostiene che ogni comunicazione verbale deve essere considerata una forma di azione. Di conseguenza, ogni enunciato non è isolato, ma si colloca all’interno di un contesto in cui produce effetti concreti.

«Prima di parlare, assicurati che il cervello sia collegato» cioè: pensa! è invece una raccomandazione suggeritami da un amico, prodotta da una mia smodata reazione verbale a commento di un fatto di cronaca. Gli amici servono anche a questo, a dare consigli utili quanto disinteressati. Perché le parole ‘pesano’.

«Le parole sono pietre», diceva Carlo Levi. La frase sottolinea la forza, l’impatto che le parole possono avere sulle persone e, di conseguenza, sulle azioni e sulle relazioni dei singoli e della collettività. Significa che le parole pesano e possono ferire o anche distruggere. Oggi, grazie all’incontrastato accesso di chiunque ai social, le parole possono generare l’”effetto branco”, il meccanismo psicologico per cui un individuo, sentendosi parte di un gruppo, tende a condividere comportamenti, idee e responsabilità; spingendosi spesso oltre i propri limiti o agendo in modo differente da come farebbe da solo.

Le parole sono azioni. Ogni volta che si parla si agisce. L’uso responsabile del linguaggio è fondamentale. Alcuni atti linguistici, il famigerato hate speech, termine derivante dal mondo anglosassone spesso tradotto in italiano come “incitamento all’odio”, è una attuale, crescente forma di comunicazione orale, scritta o comportamentale che utilizza un linguaggio denigratorio o discriminatorio per attaccare o esprimere intolleranza verso una persona o un gruppo in base a caratteristiche quali religione, etnia, razza, genere, orientamento sessuale, nazionalità, disabilità o altre identità. Ha come obiettivo diffondere odio, discriminazione e ostilità, potendo sfociare anche in forme di disinformazione o incitare a reazioni violente. La cronaca ne riporta quotidianamente esempi. Si direbbe che nessuna categoria sociale, politici inclusi, sia esente da questa attività che fa nascere poi rettifiche, scuse e spiegazioni maldestre. Così, per altro, la notizia vien data due volte; “pèso el tacòn del buso”, come recita il detto padovano.

Chi ha una certa età (eufemismo politicamente corretto per ‘vecchio’) probabilmente ricorda il motto aziendale “Think” (‘pensa’), utilizzato per la prima volta nel 1920 da Thomas J. Watson, il fondatore IBM – International Business Machines, la multinazionale Usa di tecnologia e consulenza nel settore informatico tra le più importanti del mondo. Un modo per incoraggiare i dipendenti della celebre azienda a sfidare lo status quo e a pensare in modo creativo e critico al loro lavoro. Cioè a fare log in, “collegare il cervello”. Proprio come con quelli artificiali. Ovviamente, se si vuole che le cose funzionino.

 

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