ORTI URBANI, ENERGIA DALLA TERRA

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La crisi riduce il budget per la spesa? Niente paura, o meglio: facciamoci coraggio e rimbocchiamoci le maniche, perché il ritorno alle pratiche dell’orticoltura potrebbe essere una via di salvezza. Lo sapevano bene le generazioni che ci hanno preceduti: fino a non molti decenni fa, infatti, il rapporto tra città e campagna passava quotidianamente attraverso la produzione e distribuzione dei prodotti dell’orto, che non arrivavano da lontano ma direttamente dalle aree periurbane, dove spesso abbondavano campi, spazi e famiglie che coltivavano la terra per il proprio sostentamento e per vendere le derrate prodotte in eccesso.

Se abbiamo più di cinquant’anni e andiamo un po’ indietro con la memoria, cercando di ricostruire l’immagine delle città della nostra infanzia, non faremo fatica a ricordare che le periferie inframmezzavano villette ottocentesche e sporadici palazzoni un po’ sperduti nel nulla, ma anche vecchie cascine, rogge delimitate da filari di salici e pioppi, orti più o meno grandi e addirittura campi coltivati, per non parlare di mandrie e greggi che sfruttavano per pascolare il molto terreno ancora libero dall’urbanizzazione.

Nei decenni successivi, via via l’orto e la coltivazione della terra diventavano simbolo di una origine sociale inferiore da cui emanciparsi senza compromessi, anche se negli Stati Uniti già emergevano movimenti di “ritorno alla terra” che talvolta vedevano anche il coinvolgimento, forse più snobistico che consapevole e sicuramente non mosso da realismo e necessità, del personaggio celebre o della star hollywoodiana di turno. Assistiamo ora invece a un fenomeno più diffuso e sincero, sia pure spesso fermo a livello di interesse che non arriva ad evolversi in una pratica costante e continuativa, per quanto sia ormai evidente che saper gestire e far produrre (aspetti non banali) un pezzetto di terra, non necessariamente grande, può davvero costituire una variabile significativa nell’economia di una famiglia: per non parlare dell’opportunità di conoscere meglio ciò che si mangia, da dove proviene, come e quando lo si produce.

L’appropriazione a tal fine di terreni incolti periurbani aveva conosciuto durante la seconda rivoluzione industriale interessanti esperienze di sistematizzazione quale il fenomeno francese dei “giardini operai”, coordinati dalla Fédération Nationale des Jardins Familiaux et Collectifs (1) fondata nel 1896 con lo scopo di proporre agli operai un’attività fruttifera con cui tenersi impegnati in modo utile nel tempo libero dal lavoro, lontani dall’alcol e vicini alla famiglia e alla natura, ed estesasi ben presto a livello internazionale.

Come facilmente immaginabile, un certo ruolo rivestirono gli orti urbani anche durante i conflitti mondiali, prima in Europa poi negli Stati Uniti. Superato l’ostracismo del florido secondo dopoguerra, che considerava le attività legate alla terra come il retaggio di un passato di miseria tutto da dimenticare, e anzi deplorava la presenza dei collage di fazzoletti di terra variamente coltivati tipici della periferia, abusivamente occupati, portatori di antiestetico disordine e mal coordinati con il nuovo ordine urbano, l’interesse nei confronti di questi piccoli appezzamenti segue poi un percorso inverso: proprio dagli Stati Uniti parte infatti la riscoperta della coltivazione, a scopo ornamentale o produttivo, di giardini e orti comuni come strumento di recupero e riappropriazione di aree degradate trascurate dalle amministrazioni, che porterà alla costituzione di importanti reti internazionali di urban farmers recentemente portate in auge dalla stessa presidentessa americana Michelle Obama.

In Italia muovono i primi passi Enti e Associazioni che si attivano per imbrigliare e dare una dimensione più coordinata al fenomeno, utilizzando tale attività anche come strumento di recupero e reinserimento sociale, per esempio nelle carceri. Le stesse Amministrazioni pubbliche si rendono conto che coltivando un orto si può fare associazione e cultura, arrivando a coinvolgere tipologie di utenti estremamente differenziate, dal professionista all’operaio senza più distinzioni: nascono quindi iniziative collettive e gruppi di interesse, più o meno coordinati e integrati sul territorio, generalmente fondati sul volontariato ma sicuramente piccoli motori di economia se non altro per lo scambio o vendita dei prodotti, con liste di attesa sempre più lunghe per ottenere dai Comuni che se ne fanno carico gli appezzamenti da coltivare. Si moltiplicano anche i corsi specifici, rivolti ai singoli che dispongono di un piccolo terreno, di un giardino adattabile all’uso o anche solo di un terrazzo o di un balcone da cui sarà ancor più grande soddisfazione arrivare ad ottenere erbe aromatiche per la cucina, pomodori da insalata, magari fagioli e zucchine.

Il cerchio si chiude con gli orti condominiali: emergono infatti (in Italia ma soprattutto all’estero) gli esempi di architettura urbana residenziale che prevedono aree comuni da gestire direttamente tra i condomini oppure da affidare a cooperative per la produzione degli ortaggi. Anche in mancanza di un progetto originario, nulla vieta di riattare e restaurare cortili e parti comuni per realizzare aree da coltivare insieme: riappropriarsi dei luoghi in cui si vive e riattivarsi per la produzione di una sia pur piccola parte del cibo che si consuma non potrà che portare vantaggi, da ogni punto di vista.

(1): http://www.jardins-familiaux.asso.fr/histoire.html

 

Milena Ortalda è consulente culturale, autrice del volume “Il futuro negli alberi” (BluEdizioni)  http://www.ilfuturoneglialberi.it/

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