COVERCIANESE

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A rigor di logica, questa parola sarebbe più pertinente alla rubrica #sapevatelo di questo magazine. Per una volta, però, facciamo eccezione. Non ci addentriamo infatti solo nella spiegazione del lemma, ma ne consideriamo, per quel che possibile, la valenza e la ricaduta  sociale. Veniamo al fatto. Chi avesse letto il Corriere della sera del 29 novembre, vi avrebbe trovato un articolo del suo critico televisivo ed opinionista Aldo Grasso, intitolato: «”Inerzia” e “scarico”. L’italiano del calcio. Le telecronache cambiano il nostro vocabolario. Ma i significati a volte sono rovesciati». Il pezzo, per chi sia interessato a leggerlo, è recuperabile sul blog dell’autore.

Una spiegazione prima di tutto: covercianese (© Grasso) è aggettivo fantasioso derivato da Coverciano, sede della famosa Scuola allenatori, l’istituzione che abilita i “mister” (!) delle squadre di calcio di Serie A e B. Il linguaggio del calcio, sostiene Grasso, il covercianese appunto, è linguaggio tecnico sportivo usato non diversamente da altri linguaggi settoriali come quelli della fisica, della biologia, della giurisprudenza, dell’economia, dell’informatica e via elencando. Sennonché, parole che per la gente comune hanno da sempre un significato per i commentatori sportivi delle più importanti reti televisive nostrane hanno tutt’altro significato. L’esempio più comprensibile è appunto la parola “inerzia”, che per il dizionario della lingua italiana significa inattività, pigrizia, oziosità, inoperosità, svogliatezza, noncuranza, poltroneria, indolenza, indifferenza, apatia, abulia, mentre per gli “urlatori” del pallone in tv (avete fatto caso, per inciso, al loro abituale tono di voce in trasmissione?) significa invece moto. Non è raro, infatti, ascoltare «è cambiata l’inerzia della partita». Forse ha fatto la sua comparsa in campo una specie di forza (concetto di fisica) esterna impegnata a spingere in avanti la quadra? Non male, eh?

Ora, è vero che il linguaggio delle cronache del gioco del calcio è, diremmo, per sua stessa natura fantasioso; come non ricordare – pochi esempi fra i tanti – il «QUASI  GOL!» di Nicolò Carosio, «Fa la barba al palo» di Bruno Pizzul delle cronache radio-televisive, o l’«abatino» con cui Gianni Brera, universalmente accreditato come magister della lingua del «floebi» (ingl.: foot-ball), nominava il regista «goleador» del Milan e della Nazionale Gianni Rivera? Oggi, invece, si tende a parlare solo come in televisione/sport (calcio sopra tutto). A indurci, per equivoca imitazione, a parlare in covercianese sono numerosi “maestri”, i molti (non tutti, fortunatamente) conduttori televisivi di comprovata improprietà di linguaggio (gente convinta, per esempio, che defatigante significhi “per smaltire la fatica”, in luogo del corretto defaticante). Per non parlare dei commentatori che li affiancano, solitamente ex sportivi professionisti, “pori fioeu” li avrebbe detti Brera, saliti in anossia di cultura a vette cronachistiche; convinti, si direbbe a sentirli esprimersi in italiano – alcuni, non tutti; per fortuna – che Ferdinando sia un gerundio.

«È capitato più volte che nella storia della nostra lingua – conclude il suo articolo Grasso – sia stato l’uso “errato” a imporsi, ad attecchire e diventare dopo un po’ accettabile, quand’è comprovato dalla continua ripetizione. Sarà così anche per il covercianese? Useremo inerzia per dire movimento?». Quello che temiamo, in aggiunta a ciò, è che presso la popolazione, quella giovanile in particolare, si accreditino ulteriormente forma mentis, cultura e lingua televisiva calcio-derivate. Riportiamo, a questo proposito, un commento datato diventato virale grazie ai media: ricordate «Un giocatore con un buon bagagliaio tecnico»? Ecco, appunto.

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