CASA E BOTTEGA

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Più di un secolo fa, si diceva, la classe lavoratrice era «tutta casa e bottega». Prima ancora, quando la nascente rivoluzione industriale vide anche in Italia affermarsi i grandi gruppi tessili: cotonifici, lanifici, tessiture; quelli siderurgici: acciaierie e costruzioni meccaniche. Il giro di parole corrente era: “tutta fabbrica, e basta”. Vita dura. Senza sconti per nessuno. Estenuanti orari di lavoro governati dalla sirena delle fabbriche. Il lavoro subordinato come motore principale dell’accumulo neocapitalista. Fatiche e sfruttamento oggi difficili da immaginare.

Ma non è stato sempre così. Non dappertutto. Ci sono state eccezioni. Oggi ne ritroviamo le vestigia architettoniche. Soprattutto in Piemonte e Lombardia.

Nati per lo più a cavallo tra Ottocento e Novecento, i villaggi operai voluti da imprenditori non di rado illuminati dall’ideologia socialista fecero la loro comparsa accanto agli opifici più importanti. “Paesi” piccolissimi di decorose abitazioni individuali e servizi: asili, mense, chiesa, ospedale e aree comuni, costruiti per offrire ai lavoratori dipendenti un modello sociale che in qualche misura li ripagasse della dura vita quotidiana di fabbrica.

In Piemonte parliamo del Villaggio Leumann a Collegno, del Borgo della manifattura di Cuorgnè, del Villaggio della filatura a Tollegno, del quartiere Barriera di Milano, uno dei simboli dello sviluppo industriale di Torino tra il XIX e il XX secolo. In Lombardia del mitico villaggio di Crespi d’Adda (Bergamo) oggi patrimonio dell’Unesco; il villaggio manifattura Festi Rasini di Villa d’Ogna; il villaggio Falck a Sesto S. Giovanni (Milano); il Villaggio Bellora di Gallarate e il Villaggio Frua a Saronno, nel Varesotto. Questi agglomerati – spiega la professoressa di Sociologia economica Ivana Pais – «raccontano di un’epoca in cui l’impresa era estremamente radicata sul territorio; rispecchiavano una gerarchia sociale molto rigida: agli operai un certo tipo di abitazione, ai capi un altro». Persino i cimiteri rispecchiavano questa gerarchia. Tuttavia, furono iniziative che consentirono alle famiglie in cerca di lavoro stabile di abbandonare le campagne dell’Italia rurale.

Quella fu l’epoca in cui l’attenzione ai bisogni sociali delle classi lavoratrici non produsse solo i nuclei industriali produttivi. Anche nelle città i quartieri operai “popolari” videro la luce in quel periodo: i primi interventi in favore dell’edilizia economica e popolare risalgono alla Legge 254/1903 (legge Luzzatti) con il compito di agevolare la costruzione di case popolari destinate ai “poveri”, gente di basso o nullo reddito. Consorzi di cooperative, società di mutuo soccorso, enti ed istituti di beneficenza, banche, Monti di Pietà e Comuni costruirono quartieri con pigioni adeguate al reddito di lavoro, provvedendo ai proletari, artigiani, piccoli coloni, impiegati, operai.

La Legge Luzzatti (1903) porta con sé una novità sociale importante: l’istituzione, nel 1908, dell’Istituto Autonomo Case Popolari. Gli anni che precedono la Prima guerra mondiale rappresentano una fase vitale di idee e di innovazioni edilizie: edifici a blocco chiuso o semiaperto, di quattro o cinque piani, con ballatoio, e spazi adibiti a servizi comuni.

Le “case di ringhiera” a Milano

La Società Umanitaria, capeggiata da Luigi Majno e da Luigi Della Torre, dal 1902 in avanti dette vita ad interessanti esempi di edilizia popolare, con annesse strutture educative (le case di bambini montessoriane, antesignane degli attuali asili nido condominiali). Fra il 1905 e il 1908 vengono realizzati due quartieri modello in altrettante zone della allora periferia sud ovest di Milano, entrambi su disegno dell’architetto Giovanni Broglio: un corpo continuo, ciascuno di 12 palazzi collegati tra loro e posizionati sul perimetro esterno lasciando, al suo interno, un vasto cortile ricco di piante e giardinetti recintati, adatto per la vita sociale dei nuclei familiari.

Duecento circa gli appartamenti, dal monolocale ai tre locali. Caratteristica innovativa per l’epoca, stante la destinazione d’uso popolare, la presenza dentro ogni appartamento di un piccolo vano di servizi provvisto di WC, lavandino e colonna diretta alle cantine per l’espulsione dei rifiuti. È noto infatti che le case popolari fino ad allora, dette “di ringhiera”, avevano un unico servizio igienico alla turca con lavandino per ogni piano e lungo ogni ringhiera quindi di uso comune per diversi appartamenti.

L’esperienza di Torino

Primo insediamento dell’Istituto per le case popolari di Torino – informa il sito www.rottasutorino.it – fu il quartiere costruito nel 1908 in Borgata Aurora fra le vie Pinerolo, Schio, Cuneo e Damiano (un tempo Mondovì), una vasta area resa disponibile dalla demolizione dell’agglomerato fatiscente del cosiddetto ‘Chiabotto delle Merle’. Il Ciabòt si trovava nella zona di quella che oggi è piazza Crispi. La demolizione facilitò l’insediamento di fabbriche industriali e la costruzione delle prime case popolari di Torino. «Queste ultime – informa il sito – furono costruite nel 1908 dall’Istituto Autonomo Case Popolari e si possono ancora vedere, nell’isolato compreso tra le vie Cuneo, Schio, Pinerolo e Damiano. Alla progettazione di questo complesso di case popolari partecipò anche Pietro Fenoglio, l’autore delle più importanti architetture liberty di Torino (sue Villa Scott e villa Fenoglio). Le influenze liberty si notano nelle decorazioni delle facciate, nei disegni delle ringhiere, nelle scelte architettoniche che sottolineano i vani scala».

Poi arrivarono la Guerra (le guerre), i piani regolatori, le scelte politiche, le ideologie e via elencando. Cambiò nel tempo la classe lavoratrice e con lei il profilo delle città. Resta viva l’ammirazione per un progetto sociale di cui oggi, forse, siamo incapaci.

Immagine: Villaggio Leumann a Torino

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